Once upon a time in Hollywood... il lieto fine che solo le favole possono permettersi
- daniela mercorelli
- 13 ago 2021
- Tempo di lettura: 7 min

Ambientato nel 1969, nei giorni precedenti l'efferato omicidio di Bel Air compiuto dalla "Manson Family". La storia segue la vicenda dell'ex star western Rick Dalton e sulla sua controfigura, che cercano la loro svolta in una Hollywood che non riconoscono più. Ma tra i vicini di casa di Dalton c'è proprio Sharon Tate, la vittima più celebre dell'omicidio del 9 agosto...
Cambiare il corso degli eventi attraverso il cinema. È ormai divenuta una costante nella filmografia di Quentin Tarantino, che il 21 maggio 1994 presentava a Cannes Pulp Fiction (poi Palma d’Oro) e oggi, esattamente 25 anni dopo, ritorna in concorso sulla Croisette con il suo nuovo lavoro, Once Upon a Time in Hollywood che, guarda caso, è ambientato esattamente 50 anni fa.
Siamo a Los Angeles, nel febbraio del 1969. L’attore televisivo Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) e la sua storica controfigura Cliff Booth (Brad Pitt) cercano di farsi strada in una Hollywood che ormai non riconoscono più. A Cielo Drive, la strada privata dove vive Dalton, da qualche giorno Roman Polanski e la sua nuova compagna Sharon Tate (Margot Robbie) hanno preso in affitto una villa, adiacente all’abitazione dell’attore.
Cinema e metacinema. Mai come stavolta il regista di Jackie Brown e Bastardi senza gloria gioca a carte scoperte, separa chirurgicamente il film in due momenti cruciali della narrazione (l’8 e il 9 febbraio la prima parte, l’8 e il 9 agosto la seconda), segue i suoi due protagonisti (e mezzo) in un continuo gioco di immersioni, dentro e fuori il set, e di rimandi, con flashback che arrivano quando meno te lo aspetti, per ragionare come forse mai fatto prima sulla natura stessa dell’essere attore.
Certo, è aiutato e non poco dalla performance spaventosa di un Di Caprio che forse solamente in The Wolf of Wall Street riuscì a mutare registri in modo così impensabile, con Brad Pitt perfetto nel suo ruolo ombra volutamente più trattenuto e sornione, ma con improvvisi cambi di tono da fuoriclasse di razza.
Non mantiene sempre la stessa potenza e il film sembra leggermente squilibrato perché, e questo è un (micro)difetto che forse l’ha sempre contraddistinto, dilata fino allo sfinimento alcune situazioni che potevano essere abbandonate con più agilità, ma è lampante la voglia di Tarantino di esaltare – anche nelle loro tare evidenti – i suoi due personaggi, colleghi da parecchio ma anche amici nella vita “reale”.
Arriva persino ad autocitarsi platealmente (durante le riprese del nuovo western con Rick Dalton nei panni del villain, con il momento topico in cui sembra di rivederlo in Django Unchained) e regala un momento di dolcissimo autocompiacimento a Sharon Tate quando, con lo stesso incanto di una bambina, si ritrova in sala – con le piante dei piedi annerite poggiate sulla poltrona antistante – a riammirarsi in The Wrecking Crew (da noi era Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm), al fianco di Dean Martin.
Naturalmente, poi, sullo sfondo ecco affiorare i fucking hippies della Manson Family, che il regista di Knoxville introduce nella sua storia poco per volta, fino alla sequenza ricca di tensione allo Spahn Movie Ranch, landa californiana dove la comune alloggiava.
Locandine, cartelloni, neon e drive in, Tarantino sembra aver davvero girato il film dei suoi sogni, con tanto di sortita – solamente accennata dalla voice over e da qualche veloce “spezzone” – nella tanto amata cinematografia nostrana di quegli anni, con Dalton impegnato in film “immaginari” tipo Nebraska Jim di Sergio Corbucci poi Operazione Dyn-o-mite o Uccidimi subito Ringo, disse il Gringo.
Film dei suoi sogni che non poteva risolversi se non a modo suo. Perché quando il cinema incontra il metacinema di Tarantino, la Storia prende sempre altre strade. Se n’è accorto anche un certo Adolf Hitler.
CRITICA
"(...) Tarantino piace mescolare le carte in tavola, raccontare altre storie possibili, diverse da quelle ufficiali, decisamente più gradite agli spettatori. Ma i limiti del film stanno proprio nel fatto che tutto è costruito per condurci all'ultima mezz'ora del film, come se solo quella avesse davvero un senso per il regista, mentre nelle restanti due ore assistiamo a un estenuante tributo di Tarantino al cinema che lo ha spinto dietro la macchina da presa, ovvero i western all'italiana e i b-movie. (...) Certo, spesso si ride, Tarantino riesce a divertire e a non prendersi sul serio anche quando orchestra scene splatter ai limiti del guardabile, ma nel complesso 'C' era una volta... a Hollywood' finisce per essere un'opera decisamente inconcludente. E non si può non chiedersi se sia lecito affrontare in questo modo un fatto di sangue così scioccante per l'America e per una serie di persone che ancora ne portano le ferite. In scena però c'è un cast davvero stellare di cui fanno parte, oltre agli attori già citati, anche Al Pacino, Kurt Russell, Emile Hirsch, Tim Roth, James Marsden, Luke Perry (recentemente scomparso), e Dakota Fanning la quale, va sottolineato, è la sorella maggiore di Elle, quest'anno a Cannes in veste di giurata." (Alessandra De Luca, 'Avvenire', 22 maggio 2019) "Due ore e mezza di coda (...) per conquistare un posto alla prima mondiale del nuovo Quentin Tarantino,' Once Upon a Time in Hollywood' (...). Ne valeva la pena? Senza esitazioni rispondo «no», con buona pace dei tarantiniani pronti ad applaudire comunque, ovunque e semprunque il loro idolo. Che ancora una volta ha dato libero sfogo alla sua cinefilia citazionista, come sempre più spesso tende a fare ultimamente. Convinto che il cinema gli abbia cambiato la vita, Tarantino torna a costruire un monumento alla settima arte, secondo lui capace, come era già successo in 'Bastardi senza gloria', di cambiare addirittura il corso delle cose. Ma per arrivare a fare i conti con questo potere taumaturgico, divaga per più di due ore (il film ne dura due e tre quarti) divertendosi a ricostruire con spirito più o meno filologico la Hollywood degli anni Sessanta e i suoi prediletti film di serie B.
(...)Tarantino si è concesso il lusso (onanistico?) di rifare intere sequenze dei suoi amati film di serie B, inventando per Rick anche una parentesi italiana dove l' attore americano va a lavorare con Corbucci e Margheriti. Mentre affida all'amico Cliff il compito di farci conoscere la comune hippie dove germoglieranno le idee di Charlie Manson. Alla fine, però, non ne sappiamo certo di più sul sottobosco di Hollywood, né tutti quei film-nel-film riescono a trasmettere un qualche tipo di amore o passione per il cinema minore (che ha bisogno di ben altro che di scolastici e ripetitivi elenchi di citazioni). Servono solo a costruire l'automonumento di un regista convinto di potersi permettere qualsiasi cosa, a cominciare da una storia che arriva al dunque solo nell'ultima mezz'ora, e che cerca una complicità a senso unico: quella dell'adoratore muto e devoto." (Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera', 22 maggio 2019) "Bastardi con gloria. Per Quentin Tarantino il cinema può ancora cambiare la storia e può sempre salvare il mondo, a partire da quello del cinema. Dieci anni dopo' Inglourious Basterds' e venticinque dopo la Palma d'Oro 'Pulp Fiction', il regista americano torna in Concorso a Cannes con un film che di quei due è la sintesi perfetta: ucronia e cinefilia, che lungi dall'essere intellettuale è sopra tutto filantropia per chi il cinema lo fa, e a ogni livello.
(...) Strepitoso DiCaprio, perfetto e strafigo Pitt, non sarà - non lo è - un capolavoro, la nona di Tarantino, ma è forse qualcosa di più profondo, perfino necessario: l'elogio dell' amicizia, del rispetto e del lavoro; l'ode al cinema, e che lo si veda in sala o in tv poco importa: l'importante è come lo si fa. Potrebbe anche andare a premio, Once Upon a Time in Hollywood, a Cannes 72, ma forse "messicani del c(...)" risuona un po' troppe volte, perché il presidente di giuria Alejandro González Iñárritu non se la leghi al dito." (Federico Pontiggia, 'Il Fatto Quotidiano', 22 maggio 2019) "(...) il film non ha deluso. Divertente e scanzonato, descrive il cinema con un sapore ruspante oggi perduto (...) Tarantino, (...) trova l'appiglio per citare un cinema italiano da sempre nel profondo della sua cultura. Quello di Margheriti, Corbucci e dei saloon in riva al Tevere. C'è anche il sangue, naturalmente. Finto. Paradossale. E fa perfino ridere." (Stefano Giani, 'Il Giornale', 22 maggio 2019) "Il finale in crescendo è nello stile di «Bastardi senza gloria», e tutto si tiene sulle tracce di un desiderio e di un cinema più grande della vita. Applausi a scena aperta alla proiezione ufficiale (più composti quelli dell' anteprima per la critica), commozione del regista che ha ringraziato al microfono «per la magnifica accoglienza», delirio dei fan in attesa per ore sulla Croisette. Venticinque anni fa Tarantino arrivò da perfetto sconosciuto sulla Croisette con «Pulp Fiction» e conquistò a furor di popolo la Palma d' oro. Sarà difficile, per la giuria guidata da Inarritu, non tenere conto di «C' era una volta... a Hollywood» per un premio importante." (Titta Fiore, 'Il Mattino', 22 maggio 2019) "(...) È uno scorrevole inno all' amicizia (DiCaprio e Pitt sono semplicemente divini col secondo addirittura cosmico) nonché lettera d'amore a chi fa e guarda cinema & tv. La seconda volta in Concorso non è un capolavoro come 'Pulp Fiction' ma è comunque un Tarantino favoloso per cinefili e no, rilassato e digressivo, più leggero e scanzonato del solito fino a una chiusa potente e liberatoria come in 'Bastardi senza gloria'. (...) Ma questo di Tarantino è il grande cinema che si faceva una volta." (Francesco Alò, Il Messaggero', 22 maggio 2019) "(...) Quentin Tarantino ha scelto due traie più celebri star della Hollywood di oggi, Leonardo DiCaprio e Brad Pitt (per la prima volta insieme su un set), in splendida forma anche dal punto di vista della performance. Nonostante questo, il nono film del regista americano premio Oscar, il più atteso del concorso di quest' anno al Festival di Cannes, ha raccolto tiepidi applausi dalla critica internazionale. (...)." (Giulia Bianconi, 'Il Tempo', 22 maggio 2019) "(...) l' impressione è quella di un'operazione mancata, di un film fiacco che non aggiunge niente alla carriera del suo autore.(...)" (Emiliano Morreale, 'La Repubblica', 22 maggio 2019) "(...) Nel suo stile tipico, Tarantino deborda, alternando scene memorabili a compiaciuti lazzi parodici che abbassano il tono e smorzano l' emozione. Ma va da sè che la scoppiettante colonna sonora, l' ottimo gioco di squadra di tutti gli interpreti - da Al Pacino (cammeo a cinque stelle) a Margot Robbie - rendono comunque godibile la visione." (Alessandra Levantesi Kezich, 'La Stampa', 22 maggio 2019)
RECENSIONE di Valerio Sammarco interamente tratta da #Cinematografo
NOTE
- IN CONCORSO AL 72. FESTIVAL DI CANNES (2019). - CANDIDATO DAVID DONATELLO 2020 PER: MIGLIOR FILM STRANIERO.
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